
Qualche settimana fa ho accompagnato una delle mie classe alla prima uscita dell’anno.
La gita era una passeggiata in montagna, programmata a inizio ottobre per essere “sicuri” di trovare ancora bel tempo. Il punto d’incontro stabilito era piuttosto lontano dalla scuola, quindi è venuta a prendermi una collega dato che “sono appena rientrata in Italia e NON HO l’auto”.
Arrivate all’incontro mi sono guardata intorno e mi sono sentita completamente fuori luogo perchè “sono appena rientrata in Italia e NON HO portato via con me quasi niente…”
Giustificabile se si pensa che mettere 10 anni in poche valigie non è facile, bisogna fare una scelta attenta degli oggetti inseparabili e naturalmente la nostra scelta è ricaduta su: libri, tutto il guardaroba della bambina, libri, ceramiche e ninnoli peruviani, libri, la mia collezione di tacchi 28 quasi mai usati, libri e…praticamente zero abiti.
Però, vista da fuori, la situazione era abbastanza ridicola: vengo dalle Ande, ho scalato montagne di quasi 5000 metri, ho accampato nel deserto e vissuto nascondendomi da un sole malato con effetto laser e ora… mi trovo qui, a fare un trekking senza scarpe da trekking; con uno zainetto figo di pelle (fortunosamente ritrovato nell’armadio) anzichè il solito zaino superattrezzato da avventura; senza occhiali da sole nè cappello (tanto il sole di casa mia è sano) e con l’acqua in una bottiglietta di plastica perchè perfino le borracce le abbiamo lasciate in Perù, tanto poi si ricomprano…

Così, mentre camminavo su per i sentieri che si snodano fra le montagne della mia terra, respirando un’aria nuova che odora di vecchio, accecata da un sole che rende il cielo di un colore diverso e riconoscibile, ammirando il panorama e la città in lontananza, nascosta da una vegetazione così verde e fresca come non vedevo da un decennio, mi sentivo completamente divisa in due.
Quella che ero prima e quella che ero adesso; quella che non c’era più ma che riappariva di nuovo; quella che ama/odia/riama/rioda le sue patrie senza logica di continuità e che si lascia affascinare dalla natura in tutti i suoi aspetti ovunque si trovi, perchè in fondo la Terra è una…

E proprio mentre ricordavo gli scritti appena letti sulla teoria che la lingua quechua e l’antico etrusco abbiano la stessa radice, ecco che Pachamama mi ha fatto una sorpresa meravigliosa:
– Prof che cos’è quello?
Momento sorpresa. Bocca aperta. Unica risposta possibile:
– Eh, in Perù si chiama Apacheta, qui non so. E non so nemmeno come ci sia finita, qui…
Una montagnola di pietre, perfettamente impilate una sull’altra, dalla più grande alla più piccola. Un rituale che in quechua si chiama appunto “Apacheta” e che ho realizzato infinite volte: un’offerta alla Pachamama o alle forze/divinità che vogliamo chiamare in nostro aiuto proprio in quel punto esatto del cammino.

Chiunque abbia viaggiato per le Ande ne ha avrà viste in abbondanza, dall’Argentina alla Bolivia al Messico al Perù. Chiunque viva realmente il contatto con la Madre Terra in qualche momento della vita ha sentito la necessità di presentarsi a Lei, anche attraverso le pietre incontrate e raccolte lungo il cammino per ringraziare, chiedere aiuto o marcare un determinato momento.
Una meravigliosa metafora e, quel giorno, per me anche una meravigliosa sorpresa. Todos somos uno. E poi le note di Caifanes cominciarono a risuonare nella mia testa…
“Para un alma eterna cada piedra es un altar“.
Bello sorprendersi e accorgersi che tutto il mondo è paese anche con le Apachetas.
Non sapevo che si chiamassero così!!!! Un bacio.
Non sapevi il nome ma ne avrai viste in abbondanza in Perù, vero?!